anguilla

Esco fuori dalla finestra e, sulla sinistra, ci sono le scalette a pioli che frustano il muro ad attendermi.

In pigiama non ho freddo.

Salgo sul tetto e vedo tutta la città offuscata da acqua e nuvole basse. Sento le gocce che picchiettano la mia pelle calda, il vento che mi si struscia addosso sinuoso come un gatto.

Acqua e aria sono in me e prendono i miei capelli rossi. Sono lunghi. È da lì che mi alzano.
Scivolo nell’atmosfera sbattuta da correnti che mi derubano i pensieri.

Vengo sbatacchiata sospesa fino a che di me non resta che un involucro leggero. Il vento decide di lasciarmi.

Scendo le scalette a pioli e sulla sinistra, c’è la finestra sofferente di tanto freddo e pioggia ad attendermi.

Come un anguilla, striscio sotto il piumone per cadere in un sonno vuoto.

[7 ottobre 2010]

avocado in Piccadilly

La folla incessante e instancabile di persone solca marciapiedi e strade in ogni direzione. Scarpe silenziose, tacchi tamburellanti, calcagna raso terra. Se si potessero tracciare le traiettorie, ne verrebbe fuori una tela fitta di intenzioni fatte camminata; se a ogni persona fosse attaccato un filo di lana colorato, ne verrebbe fuori un nido in cui rifugiarsi da tutto quel caos e frastuono. Del resto, l’antidoto si trova sempre nel veleno.

Poi ci sono i taxi, gli autobus e le macchine, le insegne luminose e la fontana, gli artisti di strada, i trolley dei turisti.

Piccadilly Circus è la metafora di vita per antonomasia: movimenti spazio temporali completamente randomici, scontri o incontri violenti, mancati o inciampati, stimoli esterni animati o inanimati incessanti. Non ci sono fari, non ci sono atolli né rocce sulle quali arrampicarsi per sfuggire al flusso: chi si ferma non è perduto, è semplicemente travolto dalla vita degli altri.

Qui la dea della casualità ride appollaiata sulla fontana di Eros, mangiando pop-corn alla vista dei tappeti rossi di conseguenze che ogni interazione umana e ogni intreccio di fili di lana colorati porta con sé. Guardare è l’unica cosa che può fare: da quando ha rinchiuso in cantina suo fratello Destino, si è solennemente promessa di non interferire minimamente con il corso aleatorio degli eventi sul pianeta Terra.

Quel giorno la dea aveva pure finito i pop-corn e stava seduta annoiata a guardare il solito tran tran di anime. Ma in mezzo a quel caos ci sono un sorriso amico, due occhi sinceri e una spolverata di spensieratezza che guardano un mucchio di cocci tenuti insieme da Vinavil e intenzione (come Agilulfo), coperti da una corazza di delusione: un incrocio di sguardi tanto improbabile quanto reale.

E contro ogni previsione, contro ogni logica o allineamento astrale, i cocci e gli occhi sinceri si scontrano in mezzo alla folla e a tutti quei fili di lana di traiettorie immaginate e intenzioni passeggiate, e iniziano a parlare. Senza filtri, senza aspettative, senza preconcetti, senza domande esistenzialiste.

Si scioglie la corazza, si solidifica la colla, cade per terra il mantello di delusione. Tutto ciò che succede dopo è meravigliosamente non calcolato, improvvisato. Inaspettato quanto vedere un avocado in Piccadilly.

E chissenefrega di chi pensa che non abbia senso, che non vada bene, che non porti a niente di buono, che sia inappropriato. Il senso di un avocado in Piccadilly è un’affermazione ontica che diventa urlo ontologico, il suo senso deriva dalla sua mera esistenza che si conferma nel tempo. Poco importa il modo in cui e il perché si è trovato lì, in mezzo a tutti quegli intrecci di fili di lana colorati. Esiste, e va bene così.

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[foto: Marianna Sgherri]

questo è un post BOH

Succede che ti trasferisci lontana da casa e dalla tua vita per – BOH, meglio non definirlo, sia mai qualche parente incappasse in questo blog, ci rimarrebbe male. Ma ho già divagato troppo. Insomma succede che te ne vai da un posto che ami, da persone che ami e abbandoni una vita che ami per – ci risiamo, non ce la faccio, non mi riesce, non so utilizzare definizioni educate. Fatto sta che cambi tutto, riparti da zero, riparti da sola, impari veramente una lingua, studi in quella lingua, conosci un sacco di persone, il tuo mondo ruota attorno a – rieccoci, non mi dilungo.

Rivoluzioni le tue abitudini e piano piano fai tua una realtà che non senti mai tua fino in fondo ma decidi di fare tua. La indossi come si indossano dei jeans vintage, sformati da un culo e un paio di cosce che non sono le tue. Del resto era il prezzo da pagare per avere finalmente al tuo fianco un’idea fatta persona, un’ossessione costruita mattoncino dopo mattoncino a partire dal lontano 2005, da quanto questo BOH (chiamiamolo così, giusto per rispetto ai parenti) ha deciso di iniziare una partita con te, giocando e manovrando sapientemente le pedine e studiando le mosse per farti “sua” come si è sempre dilettato a chiamarti.

[NB – Questo BOH si è anche fatto prendere da te – dopo 11 anni speriamo, ma purtroppo la tipologia di maschio BOH (il sostantivo “uomo” mal si sposa con questo profilo di essere umano) è emotivamente disabile dunque, incapace di amare l’altro. Ogni particella di amore di cui è capace il BOH è in realtà un boomerang sparato in aria che prende per il collo le persone per portarle al proprio ego che aspetta fiducioso l’arrivo delle prede per divorarle pezzettino dopo pezzettino con i dentini aguzzi. Vero è che da quel boomerang ti ci devi far accalappiare e, ahimè, è quello che ha fatto la sottoscritta.]

Ma torniamo agli 11 anni. Ne erano passati 10 quando il BOH decide di levarsi tre passi dai coglioni. Ebbene sì. Dopo che lo avevi pregato di accettare un’offerta di lavoro in Italia, dopo averti promesso che Londra sarebbe stata la vostra casa per almeno un paio di anni, dopo aver firmato con te un contratto di affitto di 14 mesi, dopo che tu avevi trovato un lavoro (finalmente pagato e non uno di quei “vediamochesaifarepoiforsetiassumiamo” che esistono anche a Londra), il BOH decide che è arrivato il momento di inseguire il suo sogno di sempre: prendere LA QUARTA LAUREA. Ebbene sì, la quarta laurea (un doppio 110 e lode in Ingegneria distocazzo e un Master in Economia Aziendale e gestione delle brugole non bastavano). Ma non è tutto, perché non poteva essere una laurea qualunque. *suspance*

[NB vol 2 – La tipologia umana BOH deve necessariamente e sempre puntare verso un alto più alto di tutti, più in alto del K2, dell’Everest e della stratosfera, per poi raggiungere il traguardo e rimanere comunque e inesorabilmente insoddisfatto della propria esistenza, creando così un buco nero di infelicità che risucchia la joie de vivre del BOH e di coloro che lo amano, costretti a sostenere anno dopo anno, mese dopo mese, settimana dopo settimana le sue imprese di conquista del mondo. “La felicità sta nelle piccole cose” è un motto che il BOH reputa una grandissima cagata, una di quelle frasi che, sostiene il BOH, i falliti ripetono a se stessi per dare un senso alle proprie vite insignificanti prive di traguardi degni di Mignolo & il Prof.]

Il BOH decide di andare a studiare a Parigi, più precisamente a Fontamblé (lo so che si scrive Fontainebleau), per conseguire l’MBA più prestigioso dell’Universo, della Galassia e del Sottosopra, tanto prestigioso che anche gli alieni del pianeta StoKazzius fanno domanda da decenni senza essere ammessi, perché al momento dell’iscrizione si rifiutano di sborsare 60.000€. In tutto questo picco di entropia, ansia, urto, tristezza, delusione e chi più ne ha più ne metta, il BOH decide di chiedere la tua opinione. Ma certo, come se a) la tua opinione contasse e b) tu potessi essere sincera. Ovviamente avevi ragione nel supporre che le tue parole avrebbero fatto al BOH lo stesso effetto che nonno fa a nonna, e dunque il BOH se ne va via, non prima di aver passato la bellezza di tutto il mese di agosto dalla mamma.

Tu passi quel mese di agosto e il successivo settembre a dormire su un materassino gonfiabile della Decathlon da 20€ adagiato sulla moquette degli anni 50 lavata a cazzo in salotto, perché, per non dover pagare il suo affitto, il BOH chiede a un suo collega a te sconosciuto e alla sua ragazza ancor più sconosciuta di insediarsi in casa tua, in camera tua, nel vostro letto, mentre tu continui a pagare 600£ + bollette al mese per dormire in sala. Su un materassino. Per terra. La tua sistemazione successiva, trovata in fase di totale panico e incazzatura, sarà una bella camera, in una bella zona, con una coinquilina un po’ sopra le righe, per la modica cifra di 925£ al mese (spese incluse) – ma questa è un’altra storia.

Torniamo al BOH. Una delle innumerevoli promesse del BOH fu qulla che sarebbe rimasto a Fontamblé per tutta la durata dell’MBA – ma il lettore attento sa che il BOH non mantiene mai le promesse. E infatti dato che abbandonare la sua ragazza a Londra, pagare 60.000€ di quota annuale, partecipare a feste promiscue settimanalmente, essere soprannominato “The Italian Stallion” e vantarsene con la propria ragazza non bastava, il BOH doveva andare per due mesi a Singapore.

Quello che è seguito può (e deve, altrimenti sai che gonfiaggio di ego-BOH a leggere tutto questo) essere sintetizzato in un elenco non puntato: regalo di Natale palesemente comprato dalla madre, regalo di compleanno inesistente, partecipazione ad addio al celibato a mangiare sushi su donna nuda, compagni di viaggio maiali, tutte le compagne di corso sono strafighe, “vieni a trovarmi a Singapore ma il biglietto pagatelo tu e organizza la vacanza qui”, mettere su un gruppo musicale in cui fare cantare una che – a detta del BOH – ci prova con lui dal giorno 0, “a trovarti a Londra? certo, due volte in un anno”, racconti di feste in cui persone sposate impegnate fatte suore fanno praticamente orge che neanche a Maial College, esibizione a un concerto a cui vai ad assistere con pazza isterica che sale sul palco e strappa la maglietta di dosso al BOH (giustificandosi con “scusa, era uno scherzo, sai somiglia al mio ragazzo”), improvvisa smania totale di andare in Croazia dove suddetti chirichetti andavano, due mesi a distanza in cui il BOH si rifiuta di venire a stare da te anche per un weekend e poi la fine, l’epilogo, l’uscita di scena con un tocco di classe che neanche un film di Woody Allen.

“Siamo alla frutta” – voce di BOH, ore 4:30GMT, una notte di agosto 2016.

Quello che voleva essere un post di riaggancio della mia attività blogghereccia in cui tentavo di spiegare in modo sintetico e simpatico il motivo della mia prolungata assenza si è trasformato in uno sproloquio di 1.000+ parole. Però oh, dovevo mettere in contesto la mia rabbia verso il mondo, incorniciarla, appenderla al muro per giocarci a freccette. Credo di essere entrata in apnea a partire da settembre 2012, quando ho deciso che la realtà che avevo sognato per anni dovesse uscire dalla mia testa e diventare palpabile, senza però rendermi conto che così facendo ho tradito me stessa, rinunciando alle bombole di ossigeno che erano la mia vita: il mare, il teatro, la scrittura, il leggere, la natura, il salmastro, gli amici, i miei, il mio melo piantato in giardino da mio nonno, Haapaluoto, Turku, Livorno, le buche per strada, il motorino, guidare, Vilma.

Adesso che respiro di nuovo mi piaccio, mi ascolto anche quando rantolo, quando tossisco o starnutisco. È faticoso da morire, ma l’unico modo per guarire e non caderci più. L’odio per il BOH si è trasformato in un “qualche giorno mi dimentico che esiste”, la rabbia che rimane è verso me stessa, per essermi voltata le spalle come un’adolescente cogliona di 15 anni per un’idealizzazione bella e buona. Questo flusso di coscienza con molte meno virgole di quelle che servirebbero mi dimostra che ho ricominciato a stare a contatto con la me vera, non la me che voleva lui. Tornerò sul palco a maggio, con i miei Mayor Von Frinzius che ho continuato a sognare regolarmente per quattro anni. Mi sono promessa di passare almeno una settimana all’anno in Finlandia, sulla mia isola di felicità e amore e infanzia e cerotti sulle ginocchia. Ho ripreso a leggere, e non solo libri di economia e marketing che fanno cascare le palle, ma libri che mi piacciono, che mi emozionano, che mi fanno ridere e piangere. Non passo più le domeniche a pianificare i pasti della settimana, le serate a cucinare e a mangiare a tavola con i film in proiezione; arrivo a casa da un frigo che a volte ulula, a volte cucino, a volte leggo e altre guardo un film. Scrivo. Mi piaccio, mi guardo allo specchio e dico “oh guarda sta figona”, dopo quattro anni a sentirmi dire che non ero bella ma “particolare” e “dovresti fare più palestra”.

Per troppo tempo ho voluto raccontare questa storia come una “storia di asincronie croniche” durata 11 anni, ma la verità è che per aggrapparmi all’idea che avevo del BOH l’unica cosa da cui mi asincronizzavo era me stessa. Che poi il BOH il bello ce lo ha, ce lo aveva, ha solo deciso di uccidere quella parte di sé e concimare l’involucro sterile e superficiale nel quale si sente più a suo agio – mentre io, cocciuta, continuavo a raschiare la superficie.

Adesso che sono quasi le una di notte potrei mettere un punto a questo monologo che credo abbia raggiunto il livello di “pietoso”. E siccome mi piace uscire di scena da finta diva, chiudo ringraziando il grande protagonista di stasera, BOH, per avermi fatto riscoprire me stessa in tutto il mio splendore lentigginoso.

non qui

luccica il sorriso tra le lentiggini
esulta la testa di fronte a un altro traguardo
saltellano i piedi dentro l’ennesimo paio di scarpe
sorge il sole anche stamani
arrossiscono le foglie per la bellezza di Autunno
e da qualche parte il mare ruggisce maestoso

ma non qui

alta_pesce

idea

Idea.
Idea.
Eterea.
Idea.
Non tangibile.
Non tange.
È un’idea.

La verità è che quando decidi di prendere una strada diversa da quella che stavi percorrendo mano nella mano con qualcuno, sei fottuto. Perché su quella strada solitaria accade una cosa che è potente, che se ne fotte di tutto e di tutti, che non ammette correnti contrarie: la vita. Due rette che si allontanano non tornano parallele. Puoi sperare in un ostacolo, una rottura, una crepa nel piano cartesiano che faccia sì che i due punti tornino a incontrarsi, ma oltre che affidarti al puro caso, stai assumendo che si riconoscano una volta riavvicinati.

Puoi solo immaginare il riallineamento. Idea.

Apri gli occhi e lo vedi. Vedi l’altro punto a cui sei unito da lenze degne della pesca allo squalo che scivola senza indugio allontanandosi da te. Ahia. Senti gli ami tirarti la carne, abbassi lo sguardo, vedi il sangue, ma hai la morfina: l’idea.

Idea.
Non tangibile.
Non tange.
È un’idea.

Idea di ricongiunzione, di parallelismo futuro, di tangenza, di incontro. La senti scorrere dolce sotto la pelle lacerata, baciare la carne viva ed è quanto ti basta per lottare.

Di tanto in tanto l’eco di un silenzio saggio si fa sentire: il pensiero – non l’idea, il pensiero. Staccati quei cazzo di ami di dosso, fanno male e faranno ancora più male.

Macché.

Un giorno, è l’altro punto che silenzioso scivola via da te a pensare. L’altro punto che gli ami li aveva attaccati alla schiena, e neanche si accorgeva del dolore tanto era concentrato a guardare la scintillante e fiammante retta su cui pattinava. È quando si ferma per la prima volta, che se ne rende conto. Ne stacca uno. Tu vedi la lenza rimbalzare sulla carne lacerata. Il sollievo è tale che diventa dolore.

Un dolore inimmaginabile.
Un dolore senza forza, senza suono, senza odore.
Un dolore vuoto.
Sottovuoto.

Provi anche tu a staccare un amo, ma riesci solo ad allentare la lenza, agganciandolo al tuo dito e protraendo il braccio verso l’altro punto. L’idea urla nella tua testa. Urla. Non mollare, non mollare. No. No.

L’altro si gira, per la prima volta da quando ha iniziato a serpeggiare sulla sua nuova retta scintillante, per la prima volta in un tempo che si avvicina al sempre, e vede l’opera che ha firmato e di cui si è macchiato la schiena: un essere di luce cosparso di sangue, grondante di sudore, infilzato da multipli ami. Vede la luce e vede l’idea.

Gli ami nella sua schiena iniziano a bruciare, urlare, sono ghiaccio e fuoco, sono acido. Li stacca uno ad uno, con meticolosità chirurgica. Dall’altra parte delle lenze che un tempo erano fili d’oro di anime connesse, l’essere di luce che aveva trovato ragion d’essere e vivere e sperare e respirare nella tensione delle lenze, nella lotta per l’idea, si accascia.

Passano attimi profumati di eterno. I due si guardano e mentre le loro ferite piangono sangue, i loro occhi annegano in oceani di tristezza. Si stringono come a volersi fondere in un unico ammasso di mestizia e sconforto, dispiacere totalizzante. Sanno che lasciandosi andare morirebbe tutto.

Morte.
Fine.
Morte.
Buio.

Mare & Sale

Il mare: splendida metafora di infinito limitante. Così come scavano la pietra ed erodono la costa, il mare e il sale forgiano i popoli che nascono, crescono e vivono a stretto contatto con essi.

Il progetto fotografico di Chiara Cunzolo nasce dalla pura curiosità antropologica nei confronti di coloro che vivono il mare nel loro quotidiano. Le persone che hanno da sempre passato molto tempo vicino al mare, sviluppano con esso un contatto primordiale e semplice che si tramuta in un utilizzo del tempo al solo scopo di essere.

Vicino al mare si ha costantemente sotto gli occhi la fine del visibile, l’orizzonte, consapevoli di non poterlo raggiungere o toccare. Si riesce sempre a vedere il punto più lontano che si possa osservare, ma lo si può solo guardare. Si può solo farsi abbracciare dalla potenza della danza tra infinito, limite e impossibile.

Vivendo con una distesa d’acqua di fronte e onde di scogli sotto di sé, l’uomo può solamente contemplare il paesaggio che lo circonda e imparare ad accoglierlo e accettarlo senza alcun desiderio di mutarlo. Contempla. Esiste, così come esiste la roccia su cui si sdraia per sentire il sole scaldargli la pelle.

Il mare leviga, dà forma, consuma. Causa nell’uomo contemplazione e accettazione, genera resistenza a tutto ciò che possa alterare il mutamento della condizione originale, leviga le smanie e consuma l’ansia fino a farla sparire. Il mare forgia popoli ilari, allergici al cambiamento e profondamente ancorati al presente. Al massimo, si infrangeranno su uno scoglio e, come un’onda, torneranno esattamente e felicemente al loro punto di partenza.

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[foto: Chiara Cunzolo, Livorno]

Taci

TIC TAC

Di nuovo. Lo stesso. Pendolo.

Scandisce il silenzio, scalfisce il vuoto. Ritma il dolore, come se potesse essere standardizzato, addomesticato, corale.

Perle di acqua salata scivolano, in silenzio.

Silenzio. Questo è il suono del mio dolore, è il suono che fa il vuoto. Acqua salata e profumo di cannella. Ricordi di canti in cucina e di pelle secca al sole, di gelati mangiati di nascosto, di biscotti croccanti.

I ricordi non fanno rumore. I ricordi non vanno a ritmo.

TIC TAC

Parole di conforto studiate, una vita raccontata come una fiaba a chi in quella fiaba ci aveva ha vissuto veramente. Quelle parole fanno rumore, rompono il mio dolore. Taci.

TIC TAC

Tu non sai, tu non hai mai sentito quell’odore di cannella, non hai mai mangiato un gelato di nascosto con lei. Taci.

TIC TAC

Tu racconti del loro incontro, di come si ritroveranno, ma non hai mai respirato l’aria piena del loro amore, permeata ancora di quel momento magico che è stato il loro inizio.

Tu parli dell’eterna estate che c’è “al di là”, ma non hai mai passato neanche un secondo con loro sotto il tepore del sole su un prato profumato, quindi non sai che l’estate per loro era dove c’era l’altro e che loro le passavano sull’Isola che non c’èTaci.

TIC TAC

Tu non sai che per lei l’estate si è spenta quando se n’è andato lui, e che lui “lassù” l’ha aspettata sotto la pioggia. Taci.

Tu non conosci il contenuto di neanche una di queste lacrime al profumo di cannella. Taci, e porta via con te anche quel cazzo di pendolo.

[28 aprile 2014]

Valigie

Tua madre, dalla Finlandia, ha trovato tuo padre in Italia ed è lì che ha cresciuto le sue figlie, in riva al mare.

Tua sorella è andata a cercarsi a Capo Nord.

Il tuo ragazzo è andato a studiare in provincia di Parigi.

Tu sei su un treno partito da Londra per andarlo a trovare. Guardi le nuvole spennellate sul cielo colorato di tramonto e ti dici che la felicità è molto più vicina di quanto chiunque con una valigia in mano possa pensare.

incrocio a senso unico

Quale legame senza sentire?
Quale impegno senza emozione?
Quale unicità senza battito?

Quale necessità di sabotare ciò che esiste ed è reale nella sua concreta presenza di ogni giorno?
Quale desiderio di scavare, graffiare la superficie con il rischio di trovare solo acqua limpida, fresca e insapore?
Quale incapacità di accettare la razionalità come risposta?

Insicurezza sorda di emozioni.
Emozioni silenti.

Insicurezza assetata di emozioni.
Emozioni scalcianti.

Definizioni discordanti. Definizioni deludenti?
Il senso è creato a tavolino. È davvero vita, senza senso?

Pancia unica bussola, solo altoparlante.
Testa senza una mappa, urlo assordante.

Love